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LA Carta Ue: un rodaggio a tempi lunghi
di Marcello Palumbo

Anche se non esaltante e minimale rispetto alla logica federalista, il trattato di Costituzione varato a Bruxelles alle ore 22,17 del 18 giugno 2004, era un atto doveroso, necessario per mantenere aggregati i 25 Paesi che si sono riuniti in un unico organismo, l’Unione europea, il 1° maggio scorso. In simili circostanze lo spumante è di rigore, magari non di grande marca dati i modesti, anzi deludenti risultati, ma a titolo di augurio e di incoraggiamento. I commessi che attorniavano i 25 leaders, i loro ministri degli esteri e i drappelli di sherpa che affiancano le singole delegazioni, tenevano le bottiglie in fresco sin dal giorno precedente e non gli è parso vero di stapparle, non soltanto per il rito, ma per quella specie di coscienza storica che i valletti acquistano a forza di stare vicino ai grandi. Il premier irlandese Bertie Ahren, definisce l’atto “una pietra miliare per l’Europa”. In effetti un fallimento o un ulteriore rinvio del varo, avrebbe privato il vascello europeo del suo apparato motore. Come andare a vela in un’epoca che conosce la propulsione nucleare.

La nuova Carta presenta il vantaggio di sostituirsi a tutti i precedenti trattati che hanno segnato il cammino dell’integrazione europea, dalla CECA, per altro già decaduta dopo 50 anni di onorato servizio, alla Comunità, all’Unione sviluppatasi attraverso le successive tappe dell’Atto Unico, di Maastricht, Amsterdam e Nizza. Inoltre mette ordine nei profili legislativi, ridotti dai 36 differenti tipi di atti, tuttora in vigore, a soli 6: legge, legge quadro, regolamento, decisione, raccomandazione e parere. Tra le pecche va annoverata l’eccessiva lunghezza, dettata forse dalla necessità di precisare in modo circostanziato i rapporti interni caratterizzati da reciproca diffidenza. Con i suoi 461 articoli la Carta si distanzia dalla tipologia degli statuti federali e nazionali: i 6 articoli della Costituzione degli Stati Uniti d’America di fine Settecento, i 138 articoli della Costituzione italiana del 1947, i 146 della Legge fondamentale tedesca del ‘49, i 92 della Costituzione francese del ’58 e così via. Grava inoltre l’incertezza sui metodi di ratifica, affidati ai singoli Paesi, e soprattutto il rischio rappresentato dai referendum. A rigore, l’eventuale bocciatura da parte di un solo Stato farebbe saltare tutto il sistema, ma ovviamente si farà del tutto per impedirlo. Infine la torta non sarà gustata calda, appena uscita dal forno, ma verrà congelata per alcuni anni. Nel frattempo l’Unione accoglierà altri Paesi d’Europa e dintorni, a cominciare dai candidati di prossima adesione, come la Romania, la Bulgaria, e in un secondo momento la Croazia e la Turchia, ma, perché no?, anche l’Albania, la Serbia-Montengro, la Bosnia-Erzegovina, l’Ucraina, la Bielorussia, la Moldavia, e la lista d’attesa non finisce qui.

Il sudato compromesso sul nodo centrale riguardante il sistema di voto all’interno del Consiglio dei ministri, che condivide col Parlamento Europeo la funzione legislativa e di bilancio (il 55%, e in alcuni casi il 72% degli Stati rappresentanti complessivamente almeno il 65% delle popolazioni), parla chiaro circa l’assenza di un reale progresso nella direzione della regola aurea della maggioranza semplice, che costituisce non solo il fondamento della democrazia ma anche il paradigma di ogni organismo che voglia lavorare speditamente. Per di più, come si è detto, il nuovo schema che sostituirà quello attuale più complicato entrerà in vigore soltanto fra cinque anni, nel 2009, mentre al 2014 è rinviata la riforma della Commissione che sarà composta da 18 membri. Si dovrà attendere del pari il 2009 per avere un Presidente dell’Unione che durerà in carica 2 anni e mezzo e il ministro degli Esteri, che però non potrà decidere nulla poiché la materia della politica internazionale, come quella fiscale, è coperta dal diritto di veto anche di un solo Stato-membro, piccolo o grande che sia. Perché questi freni, perché tanta lentezza, dopo oltre 50 anni di esperienza comunitaria e di Unione? Tutto ciò non è accaduto con gli Stati Uniti d’America che hanno mantenuta intatta la loro Costituzione, costringendo i 37 Stati che si sono aggiunti agli originari 13 ad accettarla così com’era stata firmata il 17 settembre 1787, magari opportunamente emendata. Ma noi una simile carta non l’avevamo, e i medi e piccoli Paesi, in particolare quelli dell’Est, che per tanti anni hanno considerato un sogno irraggiungibile poter varcare la soglia del riservatissimo club degli euroccidentali, ora che ci stanno dentro, anche se da poco più di un mese, si sono fatti prendere dallo spavento di poter cadere dalla spietata dottrina brezneviana della sovranità limitata ad un analogo ruolo subalterno, questa volta, ai grandi dell’Ovest. Uno dei quali, la Gran Bretagna, non ha nessuna voglia di cedere, neppure con tutta la reciprocità del caso, quote di sovranità in quei settori vitali della politica internazionale, militare, sociale e fiscale che rappresentano i punti di forza della sua insularità rispetto al continente. Anche se nutriamo una grande stima verso i regnicoli, sudditi di Elisabetta II, eredi di una ineguagliata tradizione democratica, non ci è proprio piaciuto il commento attribuito a Tony Blair al termine della Conferenza: “Questa Costituzione dimostra che l’Europa federale è morta”. Noi ci auguriamo ardentemente che ciò non sia vero e che il traguardo al quale restiamo fedeli sia soltanto rimandato. Ci adopereremo perché quelle malformazioni d’origine di cui ha parlato l’on. Giuliano Amato vengano curate con opportuni interventi. Anche la delusione del Papa e degli ambienti cattolici per la mancata citazione delle radici cristiane, ciò che ha fatto esultare i turchi, potrà essere compensata da un serio recupero culturale e soprattutto morale di cui l’Europa unita, in declino di primato numerico nella cattolicità mondiale, potrà fornire il salutare esempio. Il tempo occorrente è lungo, ma ci auguriamo che non smentisca la sua fama di galantuomo.

 

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