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			Si ripresenta 
			lo spettro della cortina di ferro e della vecchia politica dei 
			blocchi - Privilegi e accordi separati minano l’uguaglianza tra gli 
			Stati dell’Unione - Rovesciare la tendenza della diserzione dalle 
			urne 
			di Marcello Palumbo 
			
			Nelle elezioni 
			che si svolgeranno dal 4 al 7 giugno per il rinnovo del Parlamento 
			Europeo oltre 400 milioni di cittadini sono chiamati a intervenire 
			con il loro voto sugli sviluppi della crisi economica e sul dissesto 
			istituzionale. Quest’ultimo potrà essere sanato dal referendum bis 
			degli irlandesi sul Trattato di Lisbona, atteso per il prossimo 
			autunno, e non c’è dubbio che la concatenazione della avversa 
			congiuntura economica con l’auspicabile recupero del senso di 
			responsabilità degli elettori dell’Isola verde giochino a favore di 
			un sì generoso per la ratifica dello stesso Trattato. Ma, auspici a 
			parte, lo stato dei lavori nel cantiere Europa presenta una visione 
			alquanto contorta. Enzo Bettiza, al cui valore intellettuale si 
			unisce una profonda conoscenza dell’Europa dell’Est, ha colto il 
			drammatico momento emerso dal vertice del 1° marzo a Bruxelles 
			scrivendo che “lo spettro che si aggira per l’Europa è l’Europa 
			stessa ormai in bilico tra malanni curabili e incurabili”.  
			 E l’immagine della “cortina di ferro”, creata da Churchill 
			nel famoso discorso di Fulton del 5 marzo  1946, è riapparsa 
			nell’armamentario mediatico della conferenza a sottolineare la forte 
			delusione dei Paesi orientali che avevano imbastito un minivertice 
			separato alla vigilia di quello ecumenico. In quella sede il 
			premier ungherese Ferenc Gyurcsany aveva contabilizzato in 190 
			miliardi di euro il fabbisogno di aiuti per sollevare le economie 
			degli Stati dell’Est. La proposta giudicata in qualche modo 
			provocatoria avrebbe poi incontrato il “no” del Cancelliere tedesco 
			Angela Merkel, e quindi la conseguente bocciatura da parte del 
			vertice. Va anche detto che Polonia, Estonia, Slovenia e la stessa 
			Repubblica Ceca, rappresentata dal presidente di turno dell’Unione 
			Mirec Topolanec,  si erano resi conto dell’ inopportunità del gesto 
			che avrebbe contribuito a ghettizzare gli stessi Paesi orientali, e 
			hanno fatto mancare il loro appoggio all’avance ungherese. Lo 
			stesso Topolanec, noto per il suo euroscetticismo, ma investito 
			dalla esigenza del ruolo, rassicurava i soci più disastrati 
			dell’Unione, affermando: “non lasceremo soli i partners in 
			difficoltà”. A sua volta il presidente  della Commissione 
			Borroso lanciava un severo monito, dichiarando: “in Europa non ci 
			sono blocchi”. 
			
			Dal Benelux a 
			Visegrad 
			
			Il rischio di 
			creare una nuova frattura fra le due aree continentali che sono 
			state artificialmente contrapposte per oltre 40 anni esiste e il 
			capo dell’esecutivo comunitario non poteva fare di meglio per 
			stroncare sul nascere una simile evenienza. Naturalmente non solo a 
			parole, con l’invito alla riflessione, ma soprattutto con gli aiuti 
			che non sono mancati fin qui e che non mancheranno in futuro. Del 
			resto la crisi ha colpito gravemente anche Paesi  come la 
			sopracitata Irlanda che fa parte dell’ala occidentale. Quanto 
			all’esistenza o meno di “blocchi” o simili strumenti operativi, 
			purtroppo i vecchi soci dell’Ovest ne coltivano a iosa.  
			Cerchiamo di dipanare l’imbrogliata matassa, senza essere sicuri di 
			enumerarne tutti i numerosi nodi. Perché dimenticare o ignorare il 
			sussistere di profili particolari riguardanti non pochi degli Stati 
			membri che, per il gioco degli incastri, moltiplicano le 
			appartenenze o i collegamenti con l’intelaiatura internazionale 
			interna o esterna all’Unione? Si pensi al Benelux, alla Nato, all’ 
			UEO,  all’ Eurozona, a Schengen, all’ Iniziativa Centro Europea, a 
			Visegrad e via elencando. Il plenum dei 27 si ritrova 
			riprodotto tal quale nel Consiglio d’Europa, nell’OCSE e nell’ OSCE, 
			ma i suoi membri si sparpagliano in molti altri organismi 
			internazionali.  
			Esempi: Il Benelux, che diede lo spunto alla Comunità europea, e che 
			dal 1948 riunisce Belgio, Olanda e Lussemburgo in un sistema che non 
			avrebbe più motivo di sussistere dopo l’istituzione del Mercato 
			Comune e dell’Unione Economica e monetaria, resta in piedi vivo e 
			vegeto. Due Paesi, Gran Bretagna e Francia, sono membri permanenti 
			del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e sono altresì potenze 
			nucleari. Una vera Unione esigerebbe, anche se la cosa può apparire 
			al momento utopica, che queste loro posizioni fossero coordinate da 
			una visione congiunta, se non da una supervisione comunitaria. Solo 
			21 dei 27 Paesi dell’Unione fanno parte della NATO, con l’esclusione 
			dei Paesi neutrali (Austria, Svezia, Finlandia e Irlanda) e di Cipro 
			e Malta, mentre tutti sono iscritti in quel fantomatico club dell’ 
			UEO, e tuttavia a diverso titolo: 10 ne sono membri effettivi, 6 
			membri associati, 5 Paesi osservatori, 7 partners osservatori (tra 
			questi ultimi figura anche il Liechtenstein che non è nell’Unione).  
			
			Separati anche 
			dall’Euro e da Schengen 
			
			L’ Euro è 
			attualmente adottato soltanto da 16 Paesi. Ne rimangono 
			volontariamente escluse Gran Bretagna, Danimarca e Svezia, mentre 
			per i nuovi membri si parla del loro ingresso nell’area a scaglioni 
			entro il 2015 (crisi permettendo). L’Eurozona, e l’Eurogruppo che la 
			rappresenta, volere o no, finiscono col costituire un organismo 
			destinato ad accentuare il dislivello tra i soci. Da notare che 
			l’Euro è stato anche adottato da Stati extracomunitari quali Monaco, 
			San Marino e il Vaticano. 
			Altrettanto travagliata appare la zona entro il cui perimetro sono 
			stati aboliti i controlli alle frontiere interne dell’Unione, la 
			zona Schengen, alla quale non partecipano Gran Bretagna e Irlanda, 
			mentre vi hanno aderito la Norvegia, l’Islanda, la Svizzera e il 
			Liechtenstein, tutti e 4 Paesi extracomunitari.  
			Non mancano per altro aggregazioni multinazionali ritagliate dentro 
			e fuori i confini dell’Unione, come l’ Iniziativa Centro 
			Europea, che fu promossa dall’Italia nel 1989, e che da un’origine 
			“quadrangolare” (Italia, Austria, Jugoslavia, Ungheria) è passata ad 
			associare oggi 17 Paesi con lo sguardo all’ Est, tra cui 6 esterni 
			all’Unione, e il Gruppo Visegrad che raggruppa Polonia, Repubblica 
			Ceca, Slovacchia e Ungheria.  
			Da ultimo, Sarkozy ha invitato a Parigi per il 13 luglio prossimo i 
			capi di 43 Stati per esaminare l’idea di un’Unione Mediterranea, 
			tutta da scoprire e da apprezzare per le sue finalità, ma che 
			concorre a rendere ancora più avveniristico un organismo come quello 
			europeo bisognoso, al momento, soprattutto di rafforzare le 
			strutture interne.  
			A coloro che si sono scandalizzati per gli atti  di solidarietà tra 
			i soci orientali dell’Unione, atti giudicati lesivi del principio di 
			parità tra gli Stati membri, vorremmo ricordare la lunga serie dei 
			guasti istituzionali prodotti dai sodali dell’Occidente, a 
			cominciare dall’affossamento della Comunità Europea di Difesa ad 
			opera dell’Assemblea francese nel 1954, alle successive bocciature 
			dei Trattati per mano di referendum popolari: il Trattato di 
			Maastricht da parte della Danimarca, quello di Roma da parte di 
			Francia e Olanda, quello di Lisbona da parte irlandese. Senza 
			contare le innumerevoli trasgressioni allo spirito comunitario 
			consumate attraverso forme conclamate o occulte di direttorii. 
			
			Esistono gli 
			Europei, bisogna fare l’Europa  
			
			La ricorrente 
			domanda che sottende, fin dai primordi, l’aspirazione all’unità 
			europea dopo che essa è entrata nell’arengo politico concreto, è 
			rimbalzata in un dialogo appassionato tra Ernesto Galli della Loggia 
			e Giuliano Amato sulle pagine del “Corriere della Sera” del 26 
			febbraio scorso. Il primo esclude ormai dalle prospettive concrete 
			la formazione di uno Stato federale europeo, per intenderci alla 
			maniera degli Stati Uniti. L’altro riconosce che l’idea di creare 
			uno Stato federale è stata un formidabile motore per la costruzione 
			europea, pur se oggi non costituisce la piattaforma ideale comune. 
			Ciò nonostante – sostiene Amato - una piattaforma ideale comune c’è 
			ed è rappresentata dall’idem sentire europeo, sostenuto da un 
			patrimonio di principi e di valori costituzionali trasferiti in 
			stampi giuridici e moduli organizzativi, ma anche di costume. La 
			partita è dunque aperta tra le forze disgregatrici e quelle 
			unitarie.     
			Che fare? Pensiamo che ci stia davanti un percorso opposto a quello 
			che suggeriva agli italiani del Risorgimento Massimo D’Azeglio: “gli 
			italiani hanno voluto fare un’Italia nuova…ma bisogna prima 
			che si formino loro”. Dalla seconda metà del secolo XX gli 
			Europei hanno sperimentato le loro affinità elettive, la loro 
			concordanza culturale pur nelle persistenti distinzioni di stili (“uniti 
			nella diversità”). Gli Europei esistono non solo come componente 
			antropologica, ma come collettività che si riconosce nella comune 
			origine e formazione; ora essi devono fare l’Europa, quella 
			istituzionale. Le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo del 
			prossimo giugno sono dunque un’ occasione da non perdere, e 
			suggeriscono ai cittadini europei pensosi del proprio avvenire di 
			invertire la tendenza della purtroppo declinante affluenza alle 
			urne. 
			
			La risalita dal 
			declino elettorale   
			
			All’indomani 
			delle analoghe votazioni del 10/13 giugno 2004 notavamo la 
			differenza tra i risultati dei referendum di adesione svoltisi nel 
			2003 nei 10 Paesi entrati nell’ UE il 1° maggio 2004, i quali 
			registrarono un’affluenza superiore al 55 % e un consenso da parte 
			dei votanti superiore all’80 %, e la successiva prova elettorale per 
			l’ Europarlamento del 10/13 giugno 2004 in cui sia l’affluenza alle 
			urne sia il consenso precipitarono a quote minime. Il punto più 
			basso fu registrato dalla Slovacchia dove nel 2003 erano andati a 
			votare il 52,15 degli elettori, mentre nel 2004 i votanti erano 
			scesi al 16,66. Anche tra gli “anziani” dell’Unione si è registrata 
			una sintomatica flessione tra coloro che hanno esercitato il diritto 
			di voto per le Europee: dal 63% delle prime votazioni del 1979 alle 
			successive percentuali del 61%, 58,5%, 56,8%, 49,8% fino al 45,5 nel 
			2004. Ma alcuni Paesi si distinsero per controtendenza: l’Italia 
			passando dal 70,8% dei votanti nel 1999 al 73,1% nel 2004, il 
			Lussemburgo dall’87,3% al 90%, l’Olanda dal 30% al 39,1%, l’Irlanda 
			dal 50,2 % al 59 % e l’Inghilterra dal 24% al 38,9%. Dunque non è 
			vero che certe cattive pieghe e infauste correnti siano 
			irrefrenabili. Si può risalire la china. 
			I popoli 
			europei, dell’Est e dell’Ovest, del Nord e del Sud hanno ora a 
			disposizione un’arma per manifestare la loro volontà di reagire alla 
			crisi economica e alla crisi d’Europa: andare alle urne in massa. 
			Una rivolta democratica contro tutte le incertezze del momento. 
			  
			
			
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