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Festival Salisburgo, trionfo di Muti con Rossini inedito

 

Riccardo Muti

Salisburgo, 9 agosto 2009 - Dieci minuti di applausi, alla fine. E Muti acclamato dalla Grosses Festspielhaus. E' stato un debutto trionfale, quello di ieri sera a Salisburgo, per il Moise et Pharaon, l'opera seria di argomento biblico di Gioachino Rossini mai rappresentata finora nella storia quasi centenaria del Festival. Un esordio atteso e glorioso, merito in gran parte di Riccardo Muti, che ha diretto i Wiener Philharmoniker, anch’essi al debutto con quest'opera considerata sacra in Italia. Moise et Pharaon è la seconda versione, scritta per Parigi nel 1827, del “Mosè in Egitto” che Rossini compose per il San Carlo nel 1818 e che lui stesso definì un “sublime abbozzo”.

Quattro ore di rappresentazione (due pause), un esercito di cantanti sulla scena (solisti e coro), un soggetto difficile (la fuga degli ebrei dall'Egitto), un cast eccezionale e una musica meravigliosa: alla fine un diluvio di applausi, ovazioni e lancio di rose bianche per Muti, consensi per la regia del tedesco Juergen Flimm, per le scene di Ferdinand Woegerbauer, i costumi di Birgit Hutter e le luci di Friedrich Rom.

Ottimo il cast dei cantanti, tutti giovani e bravi in ruoli ardui: il basso russo Ildar Abdrazakov (Moise), lo stesso che interpretò la parte nell'allestimento presentato da Muti alla Scala nel 2003, il soprano lettone Marina Rebeka (Anai), il tenore americano Eric Cutler (Amenophis), il baritono italiano Nicola Alaimo (il faraone), il tenore argentino Juan Francisco Gatell (Eliezer), il basso russo Alexey Tikhomirov (Osiride), il mezzosoprano georgiano Nino Surguladze (Sinaide), e il mezzosoprano italiano Barbara Di Castri (Maria).

Superbo il coro, quello della della Staatsoper di Vienna, vero protagonista dell'opera, divini i Wiener, che sotto la bacchetta di Muti riescono a fluttuare con nonchalance da Mozart a Verdi fino a questo Rossini mai eseguito prima come fossero sempre nel loro elemento. La scena, più o meno la stessa durante i quattro atti, è dominata da una parete concava in legno che tende verso l'infinito in alto dando l'idea di prigionia del popolo di Israele, schiavo del faraone egizio. Di difficile realizzazione, quest'opera, che mette in scena la Bibbia, viene semplifica dalla regia con qualche trucco, che aggira gli ostacoli ma evita di cadere nell'oleografico o nel kitsch. Si aiuta anche con le scritte dei salmi, che scorrono su un sipario trasparente e commentano e esplicitano l'azione sulla scena (ad esempio quando si annunciano le piaghe d'Egitto inflitte dal Dio di Israele per la mancata promessa del faraone di liberare gli ebrei).

Il dilemma della fuga degli ebrei, il tedesco Flimm lo scioglie facendoli comparire con le valigie in mano: uno stuolo di valigie, sempre in viaggio e mai alla meta, un'immanente sala d'attesa che dice l'eterno cammino del popolo ebraico fatto di esodo, diaspora, persecuzioni, Olocausto, fino, indirettamente, al conflitto in Medio Oriente e Gaza. La scena finale quando le acque del Mar Rosso si aprono per consentire la fuga agli ebrei e poi richiudersi risucchiando gli egiziani, è risolta senza mostrare né mare, né acqua bensì solo sabbia. Mentre da un lato l'esercito egiziano avanza come al rallentatore brandendo lance all'inseguimento, dall'altro gli ebrei fuggono attraverso un taglio apertosi nella parete di legno: nella corsa le valigie si aprono e masse di terra si riversano a prosciugare il mare e consentire la loro fuga e salvezza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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